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Il cinema... visto da www.viabonanno24.it
Number 23
Titolo originale: The Number 23 Nazione: USA Anno: 2006 Genere: Thriller/Drammatico Durata: 95' Regia: Joel Schumacher Cast: Jim Carrey, Virginia Madsen, Paul Butcher, Patricia Belcher, Michelle Arthur, Logan Lerman, Danny Huston L'ultimo film di Joel Schumacher è il "classico" thriller psicologico-ossessivo dalle venature noir, dark e gotiche. L'ossessione "numerologica" però è così invasiva che finisce per esaurirsi quasi completamente nella premessa e così il continuo ricorrere del 23 in tutte le sue possibili combinazioni nell'intero arco della pellicola finisce per diventare artificioso e un po' troppo calcato. E a volte anche abbastanza ridicolo, a dire il vero: capita infatti che questo continuo apparire del numero, talvolta nascosto in date, altre volte in nomi, indirizzi o addirittura colori, risulti talvolta talmente scontato da essere esilarante. Così Jim Carrey, tanto apprezzato in passato per i suoi ruoli comici, finisce per diventare un "comico involontario": sarebbe splendido se stessimo parlando di una commedia ma purtroppo questo vorrebbe essere un thriller... e i thriller di solito non devono far ridere (e quando questo accade, vedi "The Grudge" o "Al calare delle tenebre", non è affatto un buon segno). Tuttavia, questo giochetto di banale numerologia alla fine funziona e inevitabilmente si imprime nella memoria del pubblico: in questo si vede l'abilità di Joel Schumacher che dimostra evidentemente di conoscere bene il meccanismo del thriller e tutto sommato riesce a suscitare nello spettatore tutta l'ansia e la tensione che voleva trasmettergli. Il film tiene abbastanza bene il ritmo, soprattutto nella prima fase. Nella seconda parte della pellicola invece si susseguono tutta una serie di spiegazioni che mettono al loro posto tutte le tessere del puzzle ma rallentano molto il ritmo sostenuto e carico di suspence dell'inizio. Il cast non delude nè entusiasma ma si limita a fare quello che gli viene chiesto, riuscendo quasi sempre ad essere abbastanza credibile (merito non da poco). In particolare Jim Carrey risulta più convincente nella prima metà del film ma perde gran parte della sua carica espressiva man mano che la pellicola e la follia del protagonista procedono, ma forse la colpa è più del copione che sua. Nonostante un finale buonista decisamente poco convincente e, secondo me, più adatto a un film per famiglie che a un thriller, tuttavia l'opera, nel suo genere, risulta essere un prodotto di intrattenimento discreto e abbastanza godibile, purché non ci si aspetti nulla di speciale. Voto: 3/5
Correndo con le forbici in mano
Titolo originale: Running with scissors Nazione: USA Anno: 2006 Genere: Commedia/Drammatico Durata: 122' Regia: Ryan Murphy Cast: Annette Bening, Brian Cox, Joseph Fiennes, Evan Rachel Wood, Alec Baldwin, Joseph Cross, Gwyneth Paltrow, Patrick Wilson, Gabrielle Union Alla separazione del padre, assente e alcolizzato, e della madre, psicotica dalla omosessualità latente, ossessionata dalla scrittura e depressa per il mancato successo come poetessa, il giovane Augusten viene affidato al dottor Finch, l'originale quanto folle psichiatra della madre. L'uomo vive in una bizzarra villa vittoriana rosa shocking con la signora Finch, madre affettuosa e allampanata che passa le sue giornate seduta sul divano a guardare vecchi film horror sgranocchiando croccantini per cani. Nella casa, dove regna la totale assenza di regole e i bambini fanno la cacca in salotto nascondendosi dietro l'albero di Natale (che da due anni non viene mai disfatto), vivono anche le due figlie biologiche dei signori Finch (la maggiore ha una morbosa relazione con il gatto mentre la minore è solita passare il tempo giocando con l'elettroshock) e il loro figlio adottivo (Joseph Fiennes, un ex-paziente dello psichiatra, violento e psicologicamente disturbato), col quale Augusten intreccerà una relazione sessuale-amorosa. Questo è il trailer che mi ha spinto a vedere il film, dopo averlo scaricato da internet (visto che nei cinema non è proprio passato). Sembrerebbe una storia di matti senza capo nè coda e invece è una vicenda realmente accaduta. L'ha raccontata Augusten Burroughs in un'autobiografia che in America è rimasta in testa alla classifica dei best-selller per 126 settimane (più di 2 anni!!!). Purtroppo però Ryan Murphy (celebre creatore di Nip/Tuck), pur spingendosi a fondo nel grottesco, non riesce a divertire più di tanto. Nel film succede di tutto, di più, forse troppo: così il regista, dopo circa trenta minuti curiosi, perde il controllo della situazione e il film inizia a sbandare accumulando crisi di nervi e pazzie dei protagonisti. Bizzarria però non è purtroppo sinonimo di originalità e così l'eccesso di follia porta alla noia: la sceneggiatura forse era valida ma probabilmente serviva un regista migliore, forse con uno sense of humour alla Woody Allen. La pellicola comunque, oltre a uno stile visivo davvero memorabile, ha un altro grande pregio: è recitato benissimo da una compagnia di attori eccellenti che sembrano voler fare a gara per dimostrare come si possa essere intensi ed espressivi senza strafare. Nel cast spiccano in particolare Joseph Cross, buffo e toccante nei panni di Augusten, la madre Psicotica Annette Bening e lo scervellato (e decisamente irritante) strizzacervelli Brian Cox. Come sostiene Mauro Gervasini di FilmTV, «sembra di essere a teatro» e questo è anche uno dei limiti della pellicola nel senso che la matrice letteraria, statica, più che altro da palcoscenico, si sente tutta. La confezione è elegante e la vicenda coinvolgente ma purtroppo alla fine il film trasmette ben poco e rischia più che altro di annoiare. Si può insomma dire che le cose più divertenti di tutta la pellicola si vedono nel trailer! ;-) Peccato (comunque mezza stellina in più di incoraggiamento perché è un semi-esordio). Voto: 2½/5
Sunshine
Titolo originale: Sunshine Nazione: Gran Bretagna Anno: 2007 Genere: Fantascienza, Thriller Durata: 108' Regia: Danny Boyle Cast: Hiroyuki Sanada, Mark Strong, Benedict Wong, Cillian Murphy, Cliff Curtis, Michelle Yeoh, Troy Garity, Chris Evans, Rose Byrne Vi dirò. Alcuni elementi di questo film me li aspettavo diversi (semplicemente perché alcuni articoli che avevo letto sul film mi avevano fatto supporre alcune cose) e mi aspettavo un finale più pessimista (che non sto a raccontare perché svelare i finali è da str....i). Ma nonostante questo, non posso non dare 4 a questo film. Ditemi pure che sono di parte (Danny Boyle è uno dei miei registi preferiti e adoro tutti i suoi film, nessuno escluso, e Cillian Murphy è il mio attore preferito, bello e magico sullo schermo in qualsiasi ruolo affronti) ma questo film per tantissimi aspetti lo merita. Primo: quel senso di angoscia, incombenza e inevitabilità che si avverte per tutto il tempo, pesante e soffocante (certe scene mi hanno fatto stare troppo male!!). Quello spazio infinito là fuori, oscuro e inquietante, che sembra non lasciare via di scampo, come il destino verso cui gli otto membri dell'equipaggio della Icarus 2 si lanciano. E poi lui. Il Sole, il protagonista assoluto, stella (qui in agonia) da cui la vita sulla terra dipende completamente (e proprio nella sua ‘ri-accensione’ tramite una bomba sta la missione dell’Icarus 2). "Se lui muore, tutti noi muoriamo". Talmente affascinante da portare quasi alla pazzia alcuni membri dell'equipaggio, talmente attratti da esso fino a morirne, per poter solamente contemplare da vicino il suo splendore e sentirsi avvolgere dai suoi raggi, in un abbraccio mortale. Ancora, i dilemmi morali dei personaggi (la vita di una persona per la vita dell'intera umanità?) e l'idea di Dio e del creazionismo che viene affrontata, nel nome della quale è stata sabotata la missione della Icarus 1 (di cui non si è saputo più niente, e ritenuta quindi fallita per motivi sconosciuti) e si cerca di sabotare anche l'altra. Tanti elementi assolutamente non banali affrontati con una regia impeccabile, visionaria e ansiogena (anche se la prima parte è più lenta della seconda), riferimenti a pilastri della cinematografia come Odissea Nello Spazio (Icarus ricorda il computer Hal), Alien e altri, e ottimi attori. Peccato che la musica che si sente nel trailer non sia stata inserita nel film (è fantastica nel suo crescendo coinvolgente!). Un thriller fantascientifico veramente buono, magari non un capolavoro della storia del cinema, ma sicuramente notevole. Voto: 4/5
Mio fratello è figlio unico
Titolo originale: Mio fratello è figlio unico Nazione: Italia Anno: 2007 Genere: Commedia Durata: 100' Regia: Daniele Luchetti Cast: Riccardo Scamarcio, Elio Germano, Angela Finocchiaro, Massimo Popolizio, Luca Zingaretti, Anna Bonaiuto Mio fratello è figlio unico è una commedia piacevole, divertente e ben fatta ambientata in Italia negli anni 60. Luchetti lascia però di sfondo quel decennio sociale e politico tanto tormentato proprio per far sì che a spiccare nel racconto fossero soprattutto i personaggi che si avvicendano nella cornice provinciale di Latina. Il film incrocia con leggerezza commedia, famiglia e politica riuscendo a raccontare lo scontro ideologico di quegli anni come una storia di famiglia nella quale a lottare sono i due fratelli Accio e Manrico, il primo fascista quasi per dispetto, il secondo comunista per tradizione (e donnaiolo per vocazione). Il cast è eccezionale: Accio è prima l'adolescente Vittorio Emanuele Properzio e poi il giovane Elio Germano (e il passaggio di età è veramente ben fatto), Manrico è Riccardo Scamarcio, bravo e bello (ma che nessuno lo paragoni a James Dean perché il confronto davvero non sta in piedi), madre e padre sono Angela Finocchiaro e Massimo Popolizio, assolutamente perfetti. Completano il cast Luca Zingaretti, un ruspante e virile venditore ambulante che trasmette ad Accio il suo amore per il fascismo, e Anna Bonaiuto, sua moglie infedele. Quello che forse manca alla pellicola sono lo spazio e il tempo necessari per far incrociare i tanti percorsi esistenziali dei personaggi: a parte Elio Germano che è quasi sempre in scena, gli altri attori appaiono e scompaiono senza potersi rivelare fino in fondo. I bravi sceneggiatori Petraglia e Rulli, trovandosi di fronte così tante storie e temi diversi, avranno probabilmente rimpianto i tempi lunghi di "La meglio gioventù": così alla fine emerge bene il rapporto conflittuale tra i due fratelli, sempre in lotta fino alla riconciliazione finale, mentre viene spiegato molto poco cosa cambia (e perché) con l'arrivo dei funesti anni Settanta (non si capisce bene come Manrico improvvisamente entri in clandestinità o perché di punto in bianco compaiano pistole e attentati). È pur vero che la commedia di Luchetti non vuole essere storica o politica nè condurre un'analisi sulla lotta armata ma è indubbio che il film nel finale sbandi in una direzione debole e un po' banale: sembra quasi che dopo la nascita del figlio di Manrico, a poche decine di minuti dalla fine, inizi tutto un altro film che però lo spettatore non ha neppure il tempo di capire, seguire e apprezzare. Un vero peccato, o forse un sintomo. Come ha scritto Fabio Ferzetti sul Messaggero, diventare adulti non è facile. Nemmeno per le commedie. Voto: 3½/5
Borat - Studio Culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan
Titolo originale: Borat: cultural learnings of America for make benefit glorious nation of Kazakhstan Nazione: U.S.A. Anno: 2006 Genere: Commedia Durata: 84' Regia: Larry Charles Cast: Sacha Baron Cohen, Pamela Anderson, Ken Davitian Credo che Borat sia uno di quei film che si ama o si odia. Io l'ho odiato. Senza possibilità di appello. Nella sua recensione, Paolo Mereghetti si chiede: «e se il (presunto) campione della scorrettezza politica fosse invece un comico decisamente conformista?». Il critico del Corriere della Sera a mio parere colpisce nel segno. L'idea della pellicola è semplice e di certo non nuova: fare propri, portandoli all'eccesso, i vizi e i difetti che si vogliono mettere alla berlina costringendo lo spettatore a fare i conti con atteggiamenti che, in misura meno sottolineata, finirebbero per passare inosservati. Questo meccanismo lascia però parecchi dubbi perché la satira, per riuscire davvero nel suo intento, dovrebbe giocare ad armi pari con l'oggetto della propria critica. E questo Borat non lo fa: chi è in scena non ha mai diritto a una propria identità precisa ma è obbligato a fare solo da spalla alle battute del protagonista o da spettatore alle sue rozze e demenziali performance. Il risultato è una farsa di infimo livello che finisce per mascherare uno spirito oltraggioso molto superficiale. Posto che del vero Kazakistan (descritto come una rozza appendice di ex-Jugoslavia alla Kusturica) Lary Charles nulla sa e evidentemente nulla gli importa, il problema è il modo in cui viene raccontata questa improbabile America fatta solo di ingenui o razzisti. Il regista si guarda bene dall'affrontare alcuni temi come l'universo culturale arabo (e anche quello nero è trattato con molte precauzioni) e così tutto si riduce a un collage di scene squallide come la masturbazione di Cohen davanti ai bikini di Pamela Anderson e la lotta tra lui e il suo cameraman, entrambi nudi, che si rincorrono per i corridoi di un hotel. Il film non scuce nemmeno mezza risata: l'orrore nei comportamenti del protagonista non si capovolge mai in comicità nè tantomeno riesce a comunicare qualcosa allo spettatore che, dopo 84 noiosissimi e rozzi minuti, esce dalla sala annoiato ed estremamente infastidito da uno sgradevole doppiaggio (che nelle intenzioni vorrebbe esprimere la grevità del protagonista) che forse potrebbe avrebbe potuto funzionare per i tempi e per il pubblico della televisione, ma di certo non in una sala cinematografica. Borat è la dimostrazione che non basta mettere dei finti cittadini americani dietro una finta candid-camera per fare satira: è troppo facile scegliere i peggiori pregiudizi e difetti dell'uomo (e non certo solo dell'uomo americano) e farli impersonare da attori professionisti, presentando e confezionando il tutto come se si trattasse di un vero documentario. La pellicola vorrebbe criticare l'ignoranza e il razzismo made in USA ma fallisce completamente nel suo intento e finisce per offendere i kazaki, i rom, gli ebrei e le donne più che gli americani. Se questa è satira, allora Neri Parenti ne è il suo profeta. E d'ora in poi guai a chi tocca Christian De Sica. Voto: 1½/5
Little Miss Sunshine
Titolo originale: Little Miss Sunshine Nazione: U.S.A. Anno: 2006 Genere: Commedia/Drammatico Durata: 101' Regia: Jonathan Dayton, Valerie Faris Cast: Steve Carell, Toni Collette, Greg Kinnear, Alissa Anderegg, Alan Arkin, Cassandra Ashe, Abigail Breslin, Paul Dano Premessa: Little Miss Sunshine è un film ironico, divertente, spiritoso e anche ben fatto. Detto ciò, ora posso rivelare con serenità che però a me non è piaciuto tanto. Ai registi Jonathan Dayton e Valerie Faris, nella realtà marito e moglie, va riconosciuto l'enorme merito di aver tratteggiato splendidamente dei personaggi ai quali è difficile non affezionarsi. Il padre in crisi che tiene i corsi su come essere vincenti e avere successo, la mamma indaffarata che cerca in tutti i modi di tenere unita la sua strana famiglia, il figlio quindicenne nichilista che odia tutti (tranne Nietzsche) e ha fatto voto di silenzio, lo zio gay suicida fallito e studioso di Proust, il nonno sboccato erotomane e strafatto di eroina e la piccola figlia un po' paffutella che aspira a diventare la Piccola Miss California: ecco i bizzarri protagonisti di questa commedia che racconta uno scombinato viaggio on the road in California affiancando situazioni grottesche ad eventi tragicomici. Felicemente scelti e intonati, gli attori incarnano i personaggi con grande affettuosità ma nella sceneggiatura si avverte anche la forzatura nella costruzione di una famiglia così esageratamente strampalata: così alla fine il film diverte meno di quanto mi aspettassi e le risate sono spesso dovute alle tante situazioni grottesche e demenziali più che alle battute intelligenti ed ironiche (che comunque sono presenti, anche se in misura minore). Del film (che, devo riconoscere, è stato molto lodato e premiato da tutta la critica) a mio parere si salvano i personaggi e la loro caratterizzazione. L'idea di base della trama, ovvero il racconto di questo strano road movie americano a bordo di un vecchio pulmino Wolkswagen con la frizione guasta e il clacson impazzito, è divertente sulla carta più che sullo schermo, forse anche a causa di un ritmo eccessivamente rilassato, quasi sciatto, del viaggio. Risulta poco convincente anche la ridicolizzazione del fanatismo per la bellezza e il successo, un po' facile e già vista. In compenso il finale è davvero divertente e ravviva un film che nell'ultimo quarto d'ora (prima del colpo di scena) sembrava davvero arrancare con difficoltà incapace di riprendersi. Nel complesso, a mio parere, Little Miss Sunshine è una commedia ben fatta, a tratti piacevole, che si può tranquillamente guardare, senza però aspettarsi troppo. Voto: 3/5
Il colore della libertà - Goodbye Bafana
Titolo originale: Goodbye Bafana Nazione: Germania, Belgio, Sud Africa, Gran Bretagna, Lussemburgo Anno: 2007 Genere: Drammatico Durata: 117' Regia: Bille August Cast: Joseph Fiennes, Diane Kruger, Dennis Haysbert, Adrian Galley, Shiloh Henderson, Mehboob Bawa « Il colore della libertà potrà anche ottenere il plauso degli educatori e il via libera per le classiche proiezioni scolastiche, ma per quanto mi riguarda è solo un pacchetto internazionale confezionato con stucchevoli didascalismo e correttezza politica.» La frase precedente appartiene a Valerio Caprara ( Il Mattino) ma per una volta mi sono permesso una citazione nelle mie recensioni perché a mio parere essa esprime come meglio non si potrebbe il mio parere sull'opera di Bille August. Il film ripercorre il rapporto tra il leader colto Nelson Mandela e la sua guardia James Gregory che, invecchiando, cambiano insieme imparando lentamente a conoscersi e rispettarsi. E lo fa in modo semplice, didattico, corretto. Nella trama non compaiono intrecci temporali nè simbolismi difficili da decifrare: il regista spiega molto chiaramente in due ore un'epoca di apartheid e di rivolta. E fin qui tutto sembrerebbe positivo: il problema però è proprio che la pellicola non trasmette emozioni ma "spiega" quello che racconta in modo decisamente scolastico. Il film quindi, evidentemente ansioso di non dispiacere a nessuno, si rivela forse utile forse per tutti coloro che non c'erano o non sanno ma allo stesso tempo è estremamente didascalico e di una sconcertante banalità narrativa, ideale appunto per essere proiettato in una scuola media (inferiore però). L'approccio scelto da Bille August è poco coinvolgente e la visione del mondo della guardia di Mandela, basata sulla supremazia dei bianchi, si trasforma in modo alquanto prevedibile togliendo suspense alla storia, complice anche l'imbarazzante inespressività di Joseph Fiennes (si salva invece l'interpretazione di Dennis "Mandela" Haysbert). Il film si riduce così a una carrellata sulle vite di Gregory e di Mandela, viste dall'esterno, senza una vera introspezione psicologica. Quello che ne vien fuori è il classico polpettone strappalacrime. Che però non strappa nemmeno una lacrima. Voto: 2½/5
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Io me lo aspettavo più allucinato e paranoico...forse io gli davo 2 e mezzo...ma cmnq nn è malaccio...